Rap e cultura popolare. La mia esperienza di cantastorie contemporaneo.

di Pietro Ariotti

            Negli anni ’80 del XX secolo la globalizzazione del mercato discografico ha fatto sì che in Italia arrivassero i primi dischi di rap, provenienti dai ghetti afroamericani e afrocaraibici delle metropoli statunitensi.

New York è sempre stata un’incubatrice di musiche e danze basate su ritmi africani e nel corso del XX secolo questa tendenza si è intensificata. Be-bop, jazz, soul e funk, RnB, salsa, boogaloo sono tutti stati tramandati di generazione in generazione in quanto portato della diaspora africana. La cultura hip hop è solo l’ultima forma musicale emersa dallo scambio continuo tra cultura nera e afrocaraibica. (Chalfant in Pipitone, 2009, p. 6)

 Il rap,  poesia orale, declamata e cantata in metrica, rappresenta per i giovani la via di espressione di un disagio sociale e di una povertà ancora imperversante nonostante la lunga lotta per i diritti civili. Ad esso si uniscono altre discipline artistiche affini: il “writing” -  l’arte dei graffiti murali, la “break dance lo stile di ballo acrobatico che mescola funk, danze africane, capoeira e kung fu - e il “turntablism” - l’arte di “scratchare” con il giradischi. L’unione di queste quattro discipline dà vita ad un'unica forma di “arte totale”: l’hiphop.

Come il jazz, che è una forma musicale in grado di esprimere in modo eloquente la condizione umana anche senza usare parole, l’hiphop ha influenzato ed educato migliaia di individui, e per questo è considerato uno dei maggiori movimenti culturali nati in America. Sorto in un contesto postindustriale, dalle promesse non mantenute del  movimento dei diritti civili e dalle incredibili condizioni di povertà dei ghetti urbani statunitensi, l’hiphop si è imposto come rimedio per alleviare la sofferenza dei soprusi di ogni giorno. Come il blues, l’hiphop è la voce della strada, di tutti coloro che non hanno accesso alle istituzioni e ai saperi. Citando Popmaster Fabel, affermo che “la gente che vive in condizioni di oppressione è sempre alla ricerca di una cura per alleviare i propri mali, e per noi quella medicina era l’espressione culturale”. (Chalfant in Pipitone, 2009, p. 8)

 

L’hiphop si manifesta nei cosiddetti “block party” americani degli anni ’70 (festa del blocco, ossia dell’isolato), che in Italia verranno fuori un decennio più tardi sotto il nome di “jam” (termine derivato dalla jazzistica “jam session”, dove i musicisti improvvisano insieme). In questi contesti vicini alla nostra nozione di festa popolare tradizionale e di festa di corte rinascimentale, emerge una cultura popolare metropolitana degna dell’attenzione degli etnomusicologi e degli studiosi del folklore, in cui danza, musica e pittura si amalgamano in un unico happening/opera d’arte totale, la jam. L’evento hiphop rappresenta una catarsi collettiva, una grande seduta di musicoterapia, un lamento di scongiuro alle insidie del Signor Blues.

Nello squallore e nella devastazione delle inner city della metà degli anni Settanta, giovani writer elaboravano nuovi pezzi sui loro blackbook e bombardavano la linea metropolitana, i treni, i campi da gioco e le facciate di palazzi, reclamando spazi e visibilità. I primi b-boy elaborarono un tipo di danza che prevedeva acrobazie sul cemento dei marciapiedi e riuscirono a rendere amichevole, anche se solo temporaneamente, lo squallore urbano creando luoghi e momenti di aggregazione giovanile. I Dj organizzavano party improvvisati per le strade, nei parchi e nei centri comunitari collegando abusivamente il loro impianto alla rete elettrica cittadina e portando pace, unità e conoscenza in aree dove non esisteva alcuna infrastruttura e violenza e criminalità erano all’ordine del giorno. I rapper utilizzarono il microfono e la loro maestria linguistica per raccontare nuovi mondi, nuove esperienze pronti a scaraventarci oltre il pianeta del rock. (Pipitone 2006, p. 14)

 

La tradizione rap, canto orale impresso su disco, declamazione poetica teatrale-musicale vicina alla jazz poetry e alla Beat Generation (Keruac voleva imitare gli assoli di Charlie Parker, Ginsberg gli aedi e i rapsodi, ossia i poeti orali dell’antica Grecia), si rifà direttamente ai valori della controcultura orale afroamericana, trasmessa di schiavo in schiavo attraverso il canto.

I canti erano e sono le testimonianze più importanti della storia dei popoli incolti. Questa funzione del canto emerge con chiarezza nel corso dei riti associati alle offerte a coloro che sono presi in schiavitù. Inizialmente l’informatore non riusciva a ricordare la sequenza dei nomi importanti. Infine accompagnandosi col picchetto delle dita cominciò a cantare. Alla fine del canto dichiarò che i nomi gli erano tornati alla memoria e che inoltre questo era un metodo ideale per ricordare i fatti storici. Coloro che visitavano il regno, al tempo della sua autonomia, dichiararono che il compito del cantante era quello di “tenere i documenti”. (Herskovits in De Stefano, p. 56)

Non a caso i Last Poets [1], lo storico gruppo definito da molti “pioniere del rap”,  formatosi nella primavera del 1968 al Marcus Garvey Park di New York, si definirono “branch from the tree called Griot”, ossia una moderna manifestazione terrena dello spirito dei griot[2], gli antichi cantori dell’Africa occidentale che svolgevano la funzione di preservare la tradizione orale degli antenati. La loro fondamentale presa di coscienza delle radici della cultura e tradizione africana, unita a una fortissima dedizione alla sensibilizzazione politica e sociale degli afro-americani,  contribuì in maniera determinante a “rivoluzionare il modo in cui la povera gente reputava sé stessa”, nel momento in cui la discriminazione razziale degli anni ’60 stava spingendo gran parte degli afroamericani a considerarsi una razza culturalmente inferiore a quella bianca (Green in Oyewole, 1996). Finite le lotte per i diritti civili degli anni ’60, la comunità nera si ritrova abbandonata a sé stessa nel degrado dei ghetti metropolitani. Dal “letame” dei bassifondi cominciano a sbocciare i primi “fiori” della cultura hiphop.

Verso la metà degli anni Settanta, la crisi evidente di ciò che un tempo era la comunità nera sarebbe diventata l’esempio più eclatante del decadimento urbano in corso, com’è magistralmente cantato nelle produzioni degli allora giovanissimi Gil Scott-Heron e Stevie Wonder. Queste erano le condizioni in cui nacque nelle strade e nei parchi del South Bronx la cultura hip hop. I primi protagonisti di quella scena, i vari Futura, Red Alert, Kool Herc, Crazy Legs e Flash, diplomatisi in istituti tecnici e professionali per lavorare in settori già coperti dall’automazione o in fabbriche che si trovavano ormai disseminate in altri luoghi, facevano parte a tutti gli effetti di quella prima ondata di sottoproletari neri ai margini della società. Per lungo tempo si è creduto che questa generazione avrebbe goduto dei vantaggi e dei benefici derivanti dalle lotte per i diritti civili. Non fu così. Se proviamo a muoverci tra le più recenti statistiche noteremo come la popolazione afro-americana viva in quartieri e abitazioni povere e prive di servizi base, soffra di disoccupazione cronica, sia vittima di suicidi e Aids – con percentuali che superano quelle di numerosi paesi del Terzo mondo – e destinata a passare buona parte della propria esistenza in prigione. L’hiphop è nato come espressione culturale, giovanile e alternativa della nuova identità nera, esprimendo sia gioia e voglia di divertirsi, sia esperienze di marginalità, di mancanza di opportunità e di oppressione

che hanno caratterizzato la storia e l’identità afro-americana. Cultura nata e plasmatasi nelle condizioni di disperazione che scandiscono il quotidiano nel ghetto nero, l’hiphop si è appropriato della tradizione culturale africana e dei suoi tentativi di adattamento e trasformazione in terra americana. (Pipitone 2006, p. 14)

 

La globalizzazione del mercato discografico ha dato modo ai giovani ragazzi di tutto il mondo di esprimersi e denunciare l’ingiustizia del quotidiano, riconoscendo il medesimo disagio di chi nasce emarginato dal sistema capitalistico alla condizione di “ultimo anello della catena”.

L’hiphop deve essere davvero capace di suscitare emozioni profonde se i giovani di mezzo mondo sognano di vivere nel South Bronx! Un quartiere squallido, poverissimo, con alti livelli di sofferenza, violenza, droga e disperazione è divenuto la mecca dei giovani in tutto il pianeta. Molti di loro ne hanno compreso lo spirito di resistenza e sono rimasti affascinati da quei ragazzi cresciuti nella miseria, eppure capaci di rispondere con attacchi creativi piuttosto che soccombere alla durezza del quotidiano. L’hiphop è diventata la cultura preferita di tutti i giovani immigrati, delle minoranze etniche, dei giovani delle favela così come di quelli delle banlieue. È un mezzo con cui i giovani possono esprimere sentimenti e frustrazioni. Anche negli Stati Uniti, dove l’hiphop è nato e dove gli interessi pecuniari lo hanno talmente stravolto da renderlo irriconoscibile, il movimento è ancora attivo e mantiene certe caratteristiche dello spirito originario. I muri parlano, l’aria è intrisa di un messaggio che ispira e rafforza la gente. L’hiphop è una forma d’arte senza prezzo, farne parte non costa niente, e continua a essere un’occasione di confronto e dibattito per i giovani, liberi da qualsiasi controllo. Dal South Bronx, questa infezione creativa dello spirito si è diffusa al mondo intero. (Chalfant in Pipitone, 2009, p. 8)

 

Nel suo libro, Bigger than hiphop (2006), Giuseppe Pipitone, forte delle sue ricerche sul campo e interviste ai membri delle comunità afroamericane negli Stati Uniti, ricostruisce il quadro sociale e culturale che ha dato vita al movimento hiphop, sottolineando inoltre le sue derive, nel momento esso si trasforma in “prodotto da vendere”.

È stato così che, poco alla volta, ho iniziato a comprendere a fondo le conseguenze della distruzione del Movimento di liberazione nero avvenuta tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta e, soprattutto, della profonda trasformazione delle forme di produzione e del mercato del lavoro. La crescente segregazione, l’invasione delle droghe pesanti, la distruzione del sistema del welfare, la guerra alla droga e le leggi repressive aiutano a comprendere la diversità tra le condizioni di vita dei protagonisti di questa cultura e delle loro produzioni della fine degli anni Settanta e quelle di oggi e a comprendere la trasformazione dei testi rap dall’impegno della Golden Age (1988-1993) alla violenza del gangsta rap per giungere alla superficialità dell’ostentazione del lusso, il bling bling contemporaneo ... L’hip hop è in stato d’emergenza da quando le multinazionali lo hanno strappato alla comunità nella quale è nato e si è sviluppato”. Da The Message di Grand Master Flash del 1982 a W4 dei Dead Prez del 2005 sono passati molti anni, molti album, molte liriche, molte esperienze di marginalità e sfruttamento nascoste dal lusso della rappresentazione mediatica, che aiutano a comprendere le ragioni per cui i testi delle due canzoni parlino delle condizioni di vita nella comunità nera in maniera tristemente simile. (Pipitone 2006, p. 14-17)

 

Negli anni della mia adolescenza (ossia nel primo decennio di questo secolo), andando a scoprire le enormi contraddizioni del contesto “apparentemente democratico” in cui sono cresciuto, la cultura hiphop mi offriva una sorta di “Bibbia orale” impressa su disco, pregna di valori concreti provenienti dalla tradizione afroamericana, i cui ‘exempla’ sono focalizzati su tematiche concretamente presenti, come sfruttamento, globalizzazione, discriminazione razziale e ingiustizia sociale. Quando frequentavo le scuole medie però, non ero bene in grado di distinguere le derive commerciali del rap di cui parla Pipitone, e, non avendo alcuna “guida” che incanalasse la mia voglia di “rappare”, ho cominciato a emulare alcuni personaggi poco fedeli alla tradizione, i cui contenuti spesso si limitavano all’ostentazione della propria virilità. Confrontandomi poco tempo dopo con un gruppo di rapper ventenni, mi sono reso conto di quanto fosse grottesco il personaggio che cercavo di emulare, e quanto più lo fossi io nella sua imitazione. Di lì a poco ho scoperto gruppi come i Sangue Misto, gente che ormai era la storia del rap italiano, che affrontava problematiche come l’emarginazione della classe sociale inferiore e il consumo delle droghe pesanti tra i giovanissimi. Il brano dei Sangue Misto intitolato Lo Straniero (1994), riusciva a darmi l’orgoglio e la sicurezza di appartenere alla nicchia di un gruppo sociale subalterno, che non si immischiava con l’ipocrisia della borghesia media provinciale. Avevo capito, come canta il ritornello del brano, che “la mia posizione” era quella di “straniero nella mia nazione”.

Io quando andavo a scuola da bambino
la gente nella classe mi chiamava marocchino,
terrone "Muto! Torna un po' da dove sei venuto!"
E questa è la prima roba che ho imparato in assoluto. (Sangue Misto, 1994)

 

Il fermento culturale dell’hiphop italiano nei primi anni ’90, molto legato ai valori e alle tematiche della tradizione afroamericana, dava la possibilità ad alcuni giovani rapper di tentare il “sabotaggio del sistema dall’interno”, denunciando nelle sporadiche apparizioni televisive, la manipolazione culturale operata tramite il piccolo schermo. Nel 1993 il rapper Frankie Hi NRG veniva invitato al Maurizio Costanzo Show a presentare il suo nuovo disco Verba Manent, il cui titolo rimanda al potenziale sovversivo della cultura orale, nel momento in cui rimane impressa su disco. Nel documentario Numero zero. Alle radici del rap italiano (2014), diretto da Enrico Biasi, Frankie Hi NRG ricorda sogghignando la sua performance da Costanzo: “Io sono andato da Costanzo a fare ‘Disconnetti il potere’ che è una canzone contro Maurizio Costanzo”. (Frankie Hi NRG https://www.youtube.com/watch?v=19ysIcX0YhY) Ecco alcuni versi della canzone che denunciano la pericolosità del mass media televisivo.

Siamo cani sperimentali di Pavlov,

la cui salivazione vien dalla televisione controllata, manipolata,

pianificata secondo il palinsesto che prevede la giornata...

comincia dal mattino, fino alla sera,

l'isterico pigiare delle dita sopra alla tastiera

del telecomando scettro esecrando ora accelerando, ora rallentando

è lui che ci comanda in questa sarabanda

 d'opinioni di fantocci: basta scegliere la banda...

UHF, VHF, occasioni di beffe ce ne sono a bizzeffe:

basta! Ribellarsi è un dovere...

DISCONNETTI IL POTERE!!! (Frankie Hi NRG, 1993)

 

Il rap mi si offriva come una musica genuina, semplice da esprimere, priva di ogni accademicismo, una musica del popolo e per il popolo. Negli anni del liceo mi ritrovavo tutti i pomeriggi a improvvisare rime con i miei coetanei, e con alcuni di loro siamo riusciti a registrare delle canzoni che circolavano tra i ragazzi sottoforma di mp3. Uno di questi brani esprimeva il disagio della quotidianità scolastica vissuta come un carcere che prepara alla vita standardizzata delle otto ore di lavoro in ufficio.; un altro ammoniva i ragazzi al fare attenzione alla cocaina, che andava molto di moda nelle discoteche. L’improvvisazione era l’arma vincente delle nostre performance. In occasione della festa del liceo era frequente far suonare gruppi di allievi, la cui totalità eseguiva brani rock in inglese “maccheronico” che avevano ben poco da comunicare. Io mi sono presentato invece con un collettivo di ballerini di strada, creando una vera e propria opera situazionista, completamente fuori dal controllo dei professori presenti, che non sapevano più cosa fare. Anziché basarmi su una scaletta di canzoni preparate, ho improvvisato rime in metrica, togliendomi anche qualche sassolino nella scarpa nei confronti di alcune antipatiche figure dell’istituzione scolastica. Negli anni del liceo sono stato il cantastorie di un piccolo “branco” di giovani, custode di storie, aneddoti, valori, proprio come un griot. Le tracce audio che mi restano non sono che il reperto archeologico di un contesto di espressione artistica e musicale popolare contemporanea, il rap.

Scalpore tra indignati:

Condannati che condannano

Indagati che t’ingannano e si scannano

Insabbiano ed infangano

La verità è sbrillaccecante anello come Mangano

Stalliere di un pagliaio pieno d’oro dove un ago

Passa inosservato, confondendo la realtà con

L’apparenza, come a teatro. (Lo scrivente, in arte Lil’ Pit, 2008)

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Abiodun Oyewole, Umar Bin Hassan. On A Mission: Selected Poems and a History of the Last Poets, H. Holt, 1996

 

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The Last poets, Vibes from the scribes, Africa World Press, 1992

 

Yvonne bynoe, “The Roots of Rap Music and Hip Hop Culture: One Perspective”, National Urban League. The State of Black America, January 1, 2001

 

 



[1]
                    [1] I Last Poets sono stati i primi rapper, parte del movimento per i diritti civili degli anni '60/'70 che utilizzarono il loro verso ribelle per criticare una nazione si ostinava a rimanere ostile nei confronti dei neri. Poco dopo la morte di Martin Luter King, David Nelson, Gylan Kain, and Abiodun Oyewole, formarono i Last Poets. La formazione ben presto si allargò passando da tre poeti e un percussionista a  sette giovani artisti neri e ispanici: David Nelson, Gylan Kain, Abiodun Oyewole, Felipe Luciano, Umar Bin Hassan, Jalal Nurridin, e Suliamn El Hadi (Gil Scott Heron al contrario di quanto sostengono alcune fonti poco attendibili, non fece mai parte del gruppo). Presero il loro nome da una poesia del poeta sudafricano Willie Kgositsile, che dichiarò la necessità di accantonare la poesia in vista di una rivoluzione incombente. Essi fusero perfettamente musica e parole recitate. Il grande poeta Amiri Baraka (LeRoi Jones) sostiene che essi siano “il prototipo del rapper”, i moderni griot. A cavallo tra gli anni '60 e '70 si associarono alle fazioni violente di SNCC (Student Non-Violent Coordinating Committee), SDS (Students for a Democratic Society),e Black Panther Party. Andarono così incontro a numerosi confronti con polizia e FBI venendo anche arrestati per aver derubato il KuKluxKlan.
 

[2]
                Nella cultura di alcuni popoli dell'Africa Occidentale, il griot anche detto djali, è un poeta e cantore che svolge il ruolo di conservare la tradizione orale degli antenati e, in alcuni contesti storici pre-coloniali, aveva anche il ruolo di interprete ed ambasciatore. Questa figura ha ancora una propria funzione nelle comunità dei paesi dell'Africa occidentale sub-sahariana (Mali, Gambia, Guinea, Senegal e Burkina Faso), specialmente presso le popolazioni Mandé (Mandinka, Malinké, Bambara e altre), Fula, Hausa, Toucouleur, Wolof, Serer, e tra alcuni gruppi della Mauritania.