Rivista Il cantastorie N°45 gen-giu 1993 e n°46 lug.dic 1993

INTERVISTA AL CANTASTORIE FRANCO TRINCALE REGISTRATA IL 7.2.1993 A GAGGIANO (MILANO)VIA RAFFAELLO SANZIO, 9/A

D. Chiediamo a Franco Trincale di presentarsi e di raccontare come ha iniziato la sua attività di cantastorie?

R. Mi chiamo Franco Trincale, sono nato a Militello in provincia di Catania il 12 settembre 1935 e ho quindi 58 anni. Diciamo che il mestiere di cantastorie l’ho iniziato negli anni ‘60, dopo aver lasciato la Marina Militare e sono circa trent’anni che esercito questa professione. Quando ho iniziato nelle piazze siciliane non avevo i” cartelloni”, questi teli che faccio adesso, perché c’era in me la voglia di incontrare il gusto di un pubblico giovane. C’era in me la convinzione che il cantastorie era sì una tradizione bella, però i giovani vedevano il cantastorie come un fatto antiquato, gli anziani si fermavano ad ascoltare, ma i giovani venivano nella piazza e dicevano “Uffa, quello lì…”, perché si andava diffondendo

un proposta musicale più moderna, e per “moderno” s’intendeva in quegli anni cantanti come Claudio Villa e simili. Il cantastorie nelle piazze era sì aspettato come colui che portava le notizie cantate, ma era anche atteso come elemento spettacolare che rompeva la monotonia della piazza siciliana dove la gente passeggiava in cerca di lavoro, dove c’era quindi questo “tempo” da passare. Quando vidi per la prima volta i cantastorie in paese avevo 7, 8 anni, frequentavo le scuole elementari e poi dopo la scuola, facevo mezza giornata presso il barbiere, come garzone, come apprendista imparavo a fare la saponata e un po’ a radere. Allora in queste botteghe artigiane come il barbiere, c’erano sempre strumenti musicali, solitamente mandolini e chitarre. Io andavo proprio da un barbiere che era anche maestro diplomato di violino e sapeva suonare bene anche chitarra e mandolino. C’era ancora l’usanza di andare di notte a fare le serenate, per esempio se uno aspirava alla mano di una ragazza le portava la serenata con delle canzoni d’amore; il mio principale diceva “Portiamoci pure ’u ragazzinu”. Loro si facevano pagare, io non beccavo niente….avevo solo la soddisfazione e ne ero orgoglioso, di cantare con questa bella voce. Quindi la mia formazione nasce dalla canzone, soprattutto napoletana, perché noi della Sicilia fruivamo del repertorio napoletano di cui ci piaceva la melodia. Quando venivano in paese i cantastorie io li andavo a vedere perché erano dei musicisti, perché suonavano la chitarra; però poi quando mi

mettevo ad ascoltarli mi attraeva “il fatto” che veniva narrato, cioè tramite la musica mi attraeva e mi incuriosiva anche il racconto, volevo vedere come andava a finire. Alcuni avevano il cartellone, altri no, mi ricordo uno che si chiamava Finocchiaro e di un altro che mi colpì moltissimo e di cui non mi ricordo il nome, forse fu proprio questo che mi diede l’ispirazione per iniziare i miei primi passi con le parodie.

Ricordo che si metteva sopra una sedia, aveva una voce forte, impostata, cantava senza microfono, allora non ce n’erano, accompagnandosi con la chitarra e faceva le parodie delle canzoni del dopoguerra. Ne ricordo una che era sul motivo di “Tazze ’e caffè”, quella canzone napoletana che fa “...e qu’ sti’ modi Brigida, tazze e caffè Parise”…… adesso mi ricordo poche frasi ma allora la sapevo tutta e questo cantastorie le interpretava così: “ A mezzanotte in punto comincia la fanfara, sona la fisarmonica lu banjo e la chitarra… perché a quei tempi molti di noi avevano le pulci e le cimici e a mezzanotte appunto, questi animaletti iniziavano a farsi sentire e sembrava che lui suonasse la chitarra e il banjo e faceva queste mosse grattandosi. Questo personaggio mi divertiva moltissimo e lo preferivo ai cantastorie che narravano i fatti di cronaca, di corna e ammazzamenti.

Lavorando presso il barbiere incominciavo anche a maneggiare la chitarra, il principale mi insegnava qualche accordo e infatti quando parlo di me musicalmente dico: “Non mi criticate di musica e di chitarra perché sono rimasto agli accordi da barbiere”, nel senso che bastano quattro accordi o dei giri armonici semplici per accompagnare le mie ballate. Quindi con le serenate e le parodie la mia formazione iniziale è stata prevalentemente canzonettistica. La scelta di diventare cantastorie avviene sì per passione, ma anche per le esigenze di sbarcare il lunario. Perché a 16 anni mi ero arruolato nella Marina Militare e durante le licenze in paese conobbi una ragazzina, che è l’attuale mia moglie, andavo a fare le serenate sotto casa, le mandavo le cartoline senza sapere neppure come si chiamava, sapevo però il nome della famiglia, l’indirizzo e che lei era la più piccola delle figlie, quindi sulle cartoline scrivevo: “Alla più piccola…” In seguito mia moglie mi raccontò le reazioni di suo padre all’arrivo della mia corrispondenza, che diceva: “Cui è ‘stu figghiu de buttana ca manna ‘ste cartuline alla chiù piccula, ca iu ciò la granne ancora ‘a ammaritare!” Perché allora il problema era di maritare prima la più grande. In seguito, accompagnato da mio padre, andai a spiegarmi in casa, cioè a

fidanzarmi e fare l’impegno per il matrimonio. Dopo sei anni ho piantato la Marina Militare e mi sono sposato come si dice da noi”alla fuitina” cioè dissi ai miei futuri suoceri: “ Qua ci vogliono troppi soldi, perdiamo troppo tempo, noi ce ne scappiamo, voi fate finta di non sapere niente, fate la scenata, poi, quando noi rientriamo, dovremo sposarci. Così con il matrimonio alla “fuiuta” ci siamo sposati rapidamente e senza problemi. Ecco quindi che per tirare avanti, non avendo più un lavoro fisso, incominciai a cantare nelle strade, a stampare i fogli di parodie, cose classiche di costume: la vicina che si occupa dei fatti degli altri, i furti di galline, le cambiali ecc., tutte cose che alla gente piacevano, però devo ammettere che quando in piazza arrivava il cantastorie io perdevo il mio pubblico. Il cantastorie, narrando il fatto di storia o di cronaca, era capace di catturare il pubblico anche per delle ore, perché la gente voleva sapere come andava a finire, mentre io esaurivo le mie canzonette in 3, 4 minuti. Inoltre vendendo solo il foglio volante, il mio guadagno era molto inferiore a quello del cantastorie che vendeva il libretto.

Cominciai a guadagnare quando portai in pazza i dischi 33 giri che contenevano diverse mie canzoni che la gente si comprava e si portava a casa. Grazie alla diffusione di questi dischi il mio nome ha cominciato ad essere conosciuto anche in altri paesi come Paternò, Ramacca, Francofonte, Lentini, Carlentini, tutti in provincia di Catania, in altri come Comiso in provincia di Ragusa, dove in seguito tornai per contestare le basi dei missili americani. A metà degli anni ‘60 decisi di andare a Milano. Io avevo un compare Giuseppe Pepe detto “Cavagnedda”, compare significa quello a cui hai tenuto a battesimo un figlio, che faceva diversi mestieri: muratore, pittore, venditore ambulante, ogni tanto cantava anche dal barbiere e un giorno mi disse: “Compare, porca miseria, sono stato a trovare mia cognata a Milano e ho visto un gruppo che suonava e cantava per strada e la gente gli buttava un sacco di soldi, se andiamo noi altri lassù con le canzoni napoletane…”. Insomma il compare mi convinse.        A quei empi erano di moda canzoni come “Lazzarella”, “Guaglione” e il repertorio di Aurelio Fierro. In seguito conobbi il gruppo che aveva colpito il mio compare, erano i fratelli e le sorelle Ferla, pavesi, che facevano un genere canzonettistico. Nelle piazze siciliane i cantastorie si erano man mano attrezzati con il microfono, la tromba, addirittura arrivavano con l’automobile su cui erano fissati l’altoparlante e l’asta con il cartellone, io invece, per farla più moderna, a Milano mi ero attrezzato con una valigetta “Geloso” che si apriva in due

parti e diventava amplificatore. Però c’era sempre il problema di cercare la corrente, perché il sistema delle batterie non era ancora in uso. Iniziammo a lavorare e io dissi al compare: “Io canto e tu raccogli i soldi” e lui disse che andava bene; non che io avessi vergogna, però allora in Sicilia c’era questa dignità di non chiedere e raccogliere i soldi, ma di vendere il foglio volante. Quindi io qui venivo a fare il “posteggiatore alla napoletana”, non cantavo quello che scrivevo. Ce ne andavamo in giro vicino alle grandi fabbriche, l’Alfa Romeo, la Siemens, nei mercati e nelle strade più frequentate e spesso anche, come si dice in gergo, “a piazza morta” cioè ci piazzavamo ad un incrocio o presso uno spiazzo e iniziavamo a cantare. Di gente se ne raccoglieva parecchia, ci buttavano i soldi anche dai balconi, e facevamo dei bei soldini, tant’è vero che dopo pochi mesi facemmo venire le nostre famiglie a Milano. Poi i nostri destini si divisero: io cominciai a fare spettacoli e ad incidere dischi, mentre il mio compare avviò una piccola impresa di imbianchino con i figli.

 

 D. Ricordi altri cantastorie che lavoravano sulla piazza di Milano negli anni ‘60?

R. Quando sono venuto a Milano, come ho già detto, ero più un canzonettista che un cantastorie. A quei tempi dovevo mandare i soldi a casa e non nascondo che cantavo anche “Lazzarella”, “Guaglione”, “Malafemmina” e poi cantavo qualche parodia mia in siciliano che poi facevo anche in italiano. In certi posti, in particolare a Roserio, dove c’era la Siemens e in largo Boccioni spesso incontravo il gruppo di Adriano Callegari. Io li vedevo non dico come miei nemici, ma come concorrenti che, tra l’altro, erano più padroni del territorio e spopolavano. Anch’io avevo un discreto consenso di treppo, ma non tanto come loro e mi chiedevo: “Ma che cacchio è che non funziona?”. Perché quelli ci sapevano fare, erano degli imbonitori, più che cantare e parlare sapevano trattenere il pubblico e io, fermandomi ad osservarli, cercavo di rubare delle cose, perché l’interesse mio era di riuscire a tenere il pubblico. Poi più avanti nel tempo li ho scavalcati, perché, con la ballata politica e la canzone di lotta, la gente preferiva me. Successivamente feci amicizia con Callegari a Piacenza alla Sagra Nazionale dei Cantastorie dove, con la mia ballata dedicata al pilota Lorenzo Bandini, morto in un incidente durante una corsa, vinsi il premio Trovatore d’Italia nel 1967. Oltre al gruppo di Callegari, formato anche dai coniugi Cavallini, c’era sulla piazza Giovanni Borlini, che era quello che suonava la fisarmonica e abitava in via delle Forze Armate. Poi c’erano i Ferla, di cui ho già accennato prima, che però erano canzonettisti e non avevano niente a che vedere con i cantastorie.

 

D. Come è avvenuto il passaggio dalle parodie alle canzoni di lotta e di protesta?

R. Le canzoni di parodia sulle cambiali, la vicina di casa, il vigile che ti fa la multa, avevano già uno sfondo sociale anche se un po’ qualunquistiche e populiste, però in me c’era questo senso di ribellismo giovanile. Mio padre era un vecchio socialista anarchico, che durante il fascismo si era fatto pure tre anni di confino alle Isole Tremiti, al paese io ero iscritto al P.C.I. e anche in Marina ne avevo combinate tante, ma la mia lenta maturazione avvenne a Milano. Vivevo sulla mia pelle la diffidenza della gente perché meridionale, non riuscivo a prendere in affitto una casa, perché non avevo un mestiere fisso e garantito, e su queste cose riflettevo. Poi man mano ho scoperto il circuito delle fabbriche, avevo tutti gli orari dei turni, ad esempio sapevo che all’Alfa Romeo allo stabilimento del Portello, che oggi non c’è più, gli operai uscivano per l’intervallo da mezzogiorno alle due, e io arrivavo a cantare le mie canzoni. Alcuni mi dicevano: “Ma perché non canti questo….sai noi…..” e mi illustravano i problemi della fabbrica, del meridionale e tante altre cose.

Quindi praticamente avviene che dalle parodie, attraverso il contatto con le fabbriche, con gli operai, con i problemi reali della città, trasporto tutto in canzoni che nascono da una intimità mia, ma che trattavano problemi generali e a cui la gente dà un consenso perché si sente protagonista. Io descrivevo il “treno del sole” perché l’ho vissuto sulla mia pelle, dentro l’emigrazione!     E questa è la differenza che c’è con Buttitta, grande poeta che però descrive il treno del sole standosene a casa. E’ così che sono diventato il “Cantastorie dell’Alfa Romeo”. Cominciai a cantare nell’ambito delle

feste dell’Unità e in altri circuiti che mi tolgono dalla strada (nel senso buono) facendo diverse serate nell’arco di tutto l’anno e guadagnavo molti più soldi che cantando in piazza. Sono gli anni della contestazione in cui si afferma la figura di Franco Trincale come cantante politico, molti mi criticavano, di quelli che non conoscevano il mio passato e non mi avevano mai visto all’opera e forse perché ero venuto alla ribalta della stampa nazionale. In questa mia veste di cantante politico fui avvicinato da impresari discografici e ho fatto dei dischi con la Cetra, la Divergo e la Durium. Però non erano dei dischi introducibili nel mercato come gli altri, perché io ero tutta un’altra cosa, non dovevo mettermi con l’orchestrina a recitare la parte del cantante, ma essere ripreso dal vivo con la mia chitarra nell’ambiente per me naturale, cioè la piazza.

D. Oltre al circuito delle feste dell’Unità negli anni della contestazione operava, anche a Milano il Nuovo Canzoniere Italiano che proponeva spettacoli con cantanti di estrazione popolare: Giovanna Daffini, Rosa Balistreri, Ciccio Busacca ecc. Hai avuto contatti con questa realtà?

 

R. Il Nuovo Canzoniere Italiano, in particolare Dario Fo era una realtà milanese e nazionale. Lo spettacolo “Ci ragiono e canto” nasce come raccolta di canzoni sociali e politiche e anch’io allora esprimevo in parte queste cose, non ero ancora molto affermato perché ero nella fase di passaggio dalla parodia alla canzone sociale e politicizzata. Non sono stato cercato forse perché poco conosciuto, come invece Ciccio Busacca che ha lasciato la Sicilia per approdare direttamente al teatro, senza affrontare la strada e la piazza come ho fatto io venendo a Milano. In questo modo tuttavia questi soggetti venivano tolti dal loro humus naturale e trasportati in una situazione in cui apparivano come una specie di lampadario antico. Lo stesso Busacca, che aveva un ruolo ben preciso nella piazza siciliana come cantastorie, ha ritenuto più opportuno esibirsi nei teatri e una volta mi disse:” E’ inutile andare nella piazza, a’ gente nun asculta chiù, nun se ferma chiù….Dario Fo invece mi porterà in televisione…..”, Questa era l’amarezza del cantastorie, erano tempi in cui la piazza, per così dire aveva ”ceduto” quindi Busacca ha ritenuto di fare la scelta di privilegiare il teatro. Anch’io ho fatto teatro, agli inizi degli anni ‘70 con Zeffirelli. Ricordo che questo lavoro teatrale aveva un grosso cast: aiuto regista Festa Campanile, musiche di Fiorenzo Carpi e attori come Franco Mulè, Paola Borboni, Renato Rascel, Vittorio Congia e Maria Grazia Buccella. Il titolo era “I venti zecchini d’oro”, e io facevo degli interventi musicali con la chitarra e delle serenate. Ricordo che mentre lavoravo a questa commedia, avvennero i fatti di Avola e io scrissi subito una ballata in cui denunciavo che la polizia aveva sparato a dei lavoratori e la cantai per le strade di Roma, A causa di questo avvenne la rottura con la compagnia perché mi dissero:” Ma come lei la sera è al Teatro Sistina e poi di giorno va in giro a cantare…. E quindi lasciai. Anche a me sono capitate occasione teatrali però ho sempre privilegiato la mia creatività e le mie scelte. Ancora oggi ritengo che la massima soddisfazione è di avere il contatto diretto con la gente, di portare la cronaca in strada. Se la cronaca, così come la canto io, viene trasportata in televisione, diventa cabaret e allora si snatura.

 

D. Hai fatto il cantastorie anche all’estero?

 

R. Pur essendo catalogato come cantante politico mi sono sempre considerato un cantastorie politico. Ho sempre scritto ballate su avvenimenti di attualità, ad esempio “Le vacche fuorilegge”, quando il ministro dell’agricoltura promise incentivi a chi ammazzava le mucche, o quella per la frutta distrutta per non abbassare i prezzi; nello stesso tempo io avevo nel mio repertorio molte ballate dedicate all’emigrazione e sono stato spesso chiamato all’estero da circoli culturali di nostri connazionali.Ho fatto anche una tournee di due mesi in Unione Sovietica, ho cantato alla radio per la trasmissione “Il globo” e la Rivista “Orizzonte”, ho pubblicato un disco di plastica con la traduzione in russo della mia ballata su Allende. Sono stato anche in Canada al di fuori di un contesto politico, ma chiamato direttamente dagli emigranti.

 

D. Quando si è concluso il periodo di militanza e cosa hai fatto dopo?

 

R. Nell’arco di tempo che coincide con la mia militanza nel PCI, spesso risultava conflittuale con l’artista creativo e libero, mi spiego: andavo bene fino a quando quello che io cantavo era funzionale alle esigenze del partito, ad esempio i miei concerti erano un mezzo per attirare la gente ai comizi; la rottura ci fu quando io composi la “Ballata per Pinelli” o la “Ballata per via Tibaldi”, dedicata alla lotta degli occupanti di case, fatti e contenuti che il PCI non condivideva. Esaurendosi l’aspetto strettamente politico della mia attività, mi sono però sentito senza un ruolo preciso perché, e qui devo fare autocritica, mi ero un po’ adattato alla situazione e non mi sentivo più molto sicuro di ritornare in piazza. Non avevo più la certezza che la gente mi ascoltasse ancora. Ho deciso quindi di rientrare in Sicilia, circa otto anni fa, dove inizialmente ho avuto anche una certa fortuna.                                           Ho lavorato per “Antenna Sicilia” di cui è proprietario il mio compaesano e anche ex compagno di scuola Pippo Baudo. Intervenivo ad una trasmissione che si chiamava “Bazar” componendo “La ballata della settimana”, vale a dire che andavo a individuare nei diversi paesi le cose che non andavano, ospedali non finiti, opere pubbliche non funzionanti ecc… e su questi fatti cantavo in diretta la mia denuncia in musica. Poi veniva attivato un telefono e la gente poteva intervenire in diretta su questi fatti….  Mi hanno fatto fare un po’ di queste trasmissioni e poi non mi hanno fatto trovare più il telefono. Dopo circa un anno la trasmissione è stata troncata definitivamente. Finito anche questo periodo io e mia moglie ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti “Torniamo a Milano!”, vediamo lì cosa posso fare”. Avevamo da parte ancora qualche risparmio e mi sono messo a cercare una portineria, mi avevano anche offerto di cantare al ristorante “Piccolo padre” mentre la gente mangiava.

E’ stata mia moglie che mi ha detto:” No, quello no! piuttosto vado a fare la cameriera, ma tu se devi cantare, devi cantare quello che sei!”. La portineria non riuscii a trovarla però mi comprai la licenza di autista di taxi. Ho cominciato a fare il taxista quasi rassegnato, è chiaro che ero sempre informato sui fatti e ogni tanto facevo qualche canzone, così per me stesso. Non c’era giorno che sul taxi salisse qualcuno che mi riconosceva, uno addirittura mi disse:” Io mi ricordo la sua ballata di Pinelli”, ma come lei si è arreso così? Ma ce le

canti ancora a quei disgraziati!”. In un’altra occasione è salito sul mio taxi il giornalista, Romano Battaglia che mi ha riconosciuto e ha fatto un bell’articolo sul Corriere della Sera dal titolo “Franco Trincale, cantastorie dei Kennedy, di professione taxista (C.d.S. 4.11.1986) e mi ha anche invitato ad una sua trasmissione televisiva. Allora mi sono detto: “Porca miseria, sai cosa faccio? Torno ancora in piazza, tanto non me lo levo il taxi, ci provo, se la gente mi ascolta, continuo, se non mi ascolta, pazienza. Quindi c’è stato quello che si può chiamare il rilancio del mio personaggio. Questa volta io sono felice perché di tutto questo arco di tempo che abbiamo ripercorso insieme, le maggiori soddisfazioni le sto ricevendo oggi. Anche perché ritenevo esaurito il mio ruolo e la mia capacità di scrivere ballate. Invece tornando a fare il cantastorie, a vendere le cassette con le mie ballate, un vero e proprio giornale cantato, ho ritrovato il contatto con la gente e un notevole consenso di pubblico. Sono riuscito anche ad avere una sponsorizzazione della Rivista “Cronaca Vera” che mi ha dato una certa tranquillità economica. Di progetti ne ho tantissimi, di cui mia moglie stessa rimane meravigliata e mi dice: “Vuoi tornare coi piedi per terra? Possibile che tu sogni sempre? Ma lo sai che hai 58 anni?”. Lei si meraviglia del fatto che io torno dal lavoro di taxista, scarico, carico, vado a cantare e quando torno scrivo, poi parlo…...è una cosa impressionante!

 

D. Nei tuoi treppi oltre le ballate di cronaca politica canti ancora diverse parodie “La Cicciolina in Convento, “Maradona”, “Il telefono cellulare”. Come organizzi e prepari i tuoi spettacoli?

 

R. La diversità tra un genere di ballata e l’altro è un’esigenza non direi opportunistica, ma della piazza, perché ogni volta c’è sempre la preoccupazione se la gente si fermerà e mi ascolterà. Si, ogni giorno divento più sicuro perché si capisce che poi si fermano, però ci sono certi momenti che ci sono solo una o due persone, poi tutto d’un tratto ce ne sono cinquanta, poi cento, poi nessuno e c’è sempre questa situazione d’insicurezza. Allora ricerco nel mio repertorio le ballate che sono più immediate, quelle che ritengo possano catturare di più l’interesse della massa, di chi passando afferra solo una parola o una strofa, ma questa è l’esigenza di tutti i cantastorie. Ci sono anche delle persone che mi telefonano, raccontandomi i propri fatti personali, affinché io ne scriva una ballata. A me queste cose personali non interessano,

preferisco quelle con uno sfondo sociale, però queste persone vogliono una ballata o una storia da poter dare ai propri figli e amici dicendo: “Questa l’ha scritta per me il cantastorie”. Io ho un libro in cui ci sono circa un centinaio di ballate, però nei miei treppi, che faccio generalmente il sabato e alla domenica, preparo anche la ballata di entrata sull’ultimo avvenimento di cronaca. Per esempio adesso ne vorrei fare una sul famoso Conto Protezione e sul Telefono Erotico. La ballata di apertura è importante perché prepara tutte le altre che magari sono conosciute e ripetute, ad esempio quella della “Baggina” di Mario Chiesa, ha ormai un anno di vita eppure fa ancora presa. Io devo anche supportare le mie storie sempre con nuove ballate, per dimostrare che sono attento alla cronaca all’analisi sociale della cronaca e anche per accumulare materiale per la pubblicazione di nuove cassette.

Negli ultimi tempi ho visto che più che le ballate di costume alla gente interessa quando io canto sull’argomento delle tangenti, un po’ perché di attualità e anche perché verifica che sono attento ai fatti, che non sono l’ultimo arrivato in quanto adesso è troppo facile parlare e fare satira su Tangentopoli, mentre io sono uno che vive costantemente all’interno della cronaca.

 

D. In tutti questi anni come è cambiato il tuo pubblico?

 

R. Dai tempi in cui cantavo davanti alle fabbriche o alle feste dell’Unità a oggi che mi esibisco in Piazza Duomo il pubblico è certamente cambiato. La gente si avvicina comunque attratta dalla figura e dalla personalità del cantastorie, dai contenuti e dall’espressione del mio linguaggio che senza falsa modestia definisco culturale. Vedo che se canto delle tangenti anche molta gente distinta si ferma, se però faccio la ballata che parla di taluni industriali che portano i soldi all’estero licenziando gli operai, allora vedo che c’è un certo disagio, e alcuni se ne vanno via. Ecco che lì c’è la verifica precisa che esiste un determinato pubblico del ceto medio che capisce che oggi tocca agli operai ad essere licenziati e domani può toccare anche a lui. Altri che, pur condannando il sistema delle tangenti, continua a difendere la loro agiatezza, i loro privilegi e mantenere le cose come stanno. In quella che è la mia espressione artistica io sono sempre lo stesso, non mi interessa rincorrere il pubblico per vendere di più, sono un cantastorie, “un provocantore” che si è emancipato e grazie al contatto con la gente sono diventato anche un analista politico. Tutto quello che ho l’ho fatto cantando queste canzoni, lo devo agli operai e alla gente comune

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D. I testi e la musica delle ballate sono tuoi?

 

R. E’ tutta opera mia, la musica è semplice, i giri armonici sono quelli base, i famosi “accordi da barbiere”. Però sulle mie cassette appare come autore dei testi il cognome di mia moglie “Sortino”, ma questo per problemi legati alla SIAE e alla tutela dei diritti d’autore. E’ evidente che le ballate le compongo io, a volte capita anche che le finisco mentre mono il cartellone e provo il microfono in piazza, questo è uno dei motivi per cui uso il leggio. Capita che leggo sui giornali una notizia che ancora non sapevo, oppure l’aveva data la televisione e poi il giornale a riporta più precisa, allora mentre cammino o lavoro col taxi mi vengono delle idee, ma non è che mi posso fermare e così mi sono attrezzato con un piccolo registratore e canticchio lì dentro. Al mattino, mentre sto andando a cantare o poco prima dello spettacolo, finisco di elaborare la ballata trascrivendola al momento e la gente di questo se ne accorge.

 

D. Ci puoi dire qualcosa dei cartelloni che usi durante i tuoi treppi?

 

R. Quelli più bruttini li ho fatti io, ad esempio quelli della Cicciolina o della Mafia a Milano, mentre quasi tutti gli altri li ha fatti un mio amico bulgaro Boris Dimitrov, ad esempio quelli con il ritratto dei giudici Falcone e Borsellino. Il cartellone di tangentopoli con la piovra, che è anche riprodotto sulla mia ultima cassetta, l’ho fatto io. Quello che mi manca è la fantasia nel disegno, allora prendo spunto qua e là dalle vignette di Forattini o da altri disegni e compongo una specie di collage che poi riporto sul cartellone, perché quello che è importante è l’immediatezza, come le vignette satiriche sui quotidiani. In questi giorni ne sto preparando uno che raffigura Craxi, Adreotti e Totò Riina: “U lungo, u curtu, u immaruto” (il lungo, il corto e il gobbo) e poi ci metto anche la trinità e poi scriverò una ballata su questi personaggi.