Lo scorso 3 luglio è scomparso il cantastorie Ignazio De Blasi, conosciuto come "Il Cantastorie del Belice". Era nato a Partanna il1 giugno 1954. Lo avevamo incontrato a Milano presso la Civica Scuola d'Arte Drammatica "Paolo Grassi" 

lo ricordiamo con affetto anche attraverso le parole del cantastorie Mauro Geraci

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Intervista a Ignazio De Blasi (Castelvetrano (TP), 1 settembre 2014)


L’annu sessant’ottu, lu misi di jnnaru,
era duminica, propriu mi nn’appuru,
lu quattordici, cunsidiratu amaru,
un jornu chi scurdallu, veni veru duru.
Lu tirrenu di sutta, ‘ntisimu trimari,
cu scrusciu d’ogni tipu e forti rumuri,
tutt’oggi provu duluri, sulu a pinzari,
jurnati tristi e notti, di gran tirruri

da La tragedia di lu Bilìci


Ignazio De Blasi, “il Cantastorie del Belìce”, nasce sessant’anni fa a Partanna (TP), un comune della Valle del Belice.

Gli eventi che si susseguono dopo il catastrofico terremoto del 1968 colpiscono la sua sensibilità di adolescente e lo vedono protagonista nei comuni devastati dal sisma come autore di storie e canti. Impara da autodidatta l’arte del verseggiare in rima, i rudimenti della chitarra e la pittura popolare, abilità in cui eccelle e che gli è valsa nel tempo numerosi riconoscimenti e premi.

Come cantastorie e cuntastorie gira tutta la Sicilia, venendo a contatto con altri cantori popolari (Rosa Balistreri, Cicciu Busacca, Otello Profazio, Franco Trincale, Nonò Salamone, Fortunato Sindoni) ed esponenti dell’arte pittorica tradizionale (i fratelli Ducato di Bagheria, Domenico Di Mauro, Antonio Zappalà). Ispirandosi allo stile di Ciccio Busacca, del quale ripropone alcuni brani durante gli spettacoli, De Blasi, nelle sue storie illustrate da bellissimi cartelloni, ci parla di leggende, tradizioni siciliane e non solo, vite dei santi. Anche la cronaca e le tematiche più attuali costituiscono materiale per i suoi “cunti”.

Lo abbiamo incontrato nel laboratorio di Castelvetrano dove è possibile ammirare molti dei cartelloni istoriati e anche il famoso Fiorino interamente decorato con scene mitologiche ed epiche nello stile dei carretti siciliani.


Perché ci tieni tanto a sottolineare di essere “il Cantastorie del Belìce”? Raccontaci un po’della tua storia in relazione alla tragedia del 1968.


Sono nato l’1 Giugno del 1954 a Partanna (TP), paese agricolo della Sicilia occidentale. Per rispondere alla domanda devo andare indietro negli anni, a quando ero ancora ragazzino: infatti, appena quattordicenne, ho vissuto con i miei genitori il dramma del terremoto del Belìce. Ricordo il lontano 14 gennaio 1968 attimo per attimo: in pochi secondi tanti paesi furono rasi al suolo causando moltissimi morti; cinquantamila i senzatetto, mentre la popolazione interessata dal sisma superò i centomila abitanti. Avevo già a quell’epoca la passione per il disegno e la poesia in siciliano; crescendo ho voluto illustrare e raccontare in versi la tragedia del Belìce e tutto quello che aveva suscitato in me: attraverso i ricordi della drammaticità di quei momenti ho composto pochi anni dopo “Lu chiantu di l’abbannunati” e “L’orfaneddi di la valli di Bilìci” dipingendo il cartellone di queste due storie che segnano i miei esordi di cantastorie. Nel 1976 mi trovavo a cantarle una sera a Sferracavallo (PA). Durante l’esibizione, una vecchietta vestita di nero ed avvolta in uno scialle, a passo veloce si è avvicinata sotto il palco gridando: “Veru è!! Veru è!!”, agitando in alto le mani e le braccia. Nel frattempo continuavo a cantare rendendo ogni momento ancora più realistico indicando i quadri del cartellone. Finito lo spettacolo volli conoscerla e mi raccontò che anche lei come me, aveva vissuto il dramma del terremoto nel comune di Santa Margherita Belìce (AG). Questo ricordo, nonostante tutti gli anni passati, mi è sempre rimasto vivo.

La tua attività di musicista-cantante è nata parallelamente a quella di pittore-decoratore?


Per il disegno ho sempre avuto una predisposizione innata, sin da bambino. Nel 1968 mio cognato mi regalò la prima chitarra, vista la passione che avevo anche per la musica moderna di quel periodo (Beat, Pop, Rock) che ascoltavo spesso grazie a un mangiadischi. Tutt’oggi strimpello alla maniera dei cantastorie usando quattro note in un giro di accordi. A vent’anni giravo già la Sicilia, cantando e raccontando sia storie scritte da me che da altri autori, ma illustrate dai miei cartelloni. In quel periodo eseguivo spesso: “Lu trenu di lu suli”, “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnevali” e altre storie scritte da Ignazio Buttitta, poeta che più di tutti mi ha sempre affascinato. In quegli anni ho avuto modo di conoscerlo personalmente e riceverne diversi apprezzamenti sia per quello che scrivevo in siciliano che per i temi che affrontavo e per la mia voce possente. Fu un grandissimo onore.


Quali cantastorie ti hanno maggiormente influenzato?


Ciccio Busacca di Paternò (CT) e Orazio Strano di Riposto (CT). Apprezzavo entrambi, ma la mia predilezione andava all’interpretazione più drammatica e incisiva di Ciccio Busacca. Ho avuto occasione di conoscerlo personalmente per la prima volta all’età di 13 anni nel 1967, quando Danilo Dolci promosse, insieme al suo collaboratore Lorenzo Barbera, la “Marcia della protesta e della speranza per la pace e lo sviluppo della Sicilia Occidentale”. A questa manifestazione parteciparono, insieme a contadini, artigiani ed intere famiglie, intellettuali come Carlo Levi, Bruno Zevi, Lucio Lombardo Radice, Ernesto Treccani e altri ancora. Durante quell’evento Ciccio Busacca, cercando una posizione soprelevata per la sua esibizione, fu attratto dal carretto di mio padre tutto decorato, trainato da un cavallo bianco, e ci salì sopra. Per fargli posto, accostai il cartello in legno che avevo in mano con su scritto ”Lavoro nella nostra terra” e cominciò a cantare un testo scritto da Ignazio Buttitta dal titolo: “La Sicilia camina”. Nel sentirlo rimasi affascinato dalla voce di quell’omino che indossava un basco blu. Molti riconoscendolo lo chiamavano e a me quel nome rimase impresso come la sua esibizione. All’epoca non pensavo assolutamente di poter fare da grande il cantastorie e quindi  cantare nelle piazze come faceva Cicciu Busacca.  La seconda volta l’incontrai a Partanna (TP) nel 1976 alla sede del CRESM  (Centro di Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione) dove dovevo esibirmi anch’io insieme a tanti altri. Quella fu un’occasione indimenticabile! Parlammo un po’ degli inizi della sua carriera di cantastorie e di come, con l’avvento della televisione, il mestiere fosse in declino.


Quanto ha influito sulla tua formazione e sulla conoscenza del repertorio a cui attingi l’aver avuto un padre “carritteri”?


Moltissimo. Mio padre era un appassionato di canti popolari: li cantava alla maniera dei carrettieri sia nei fondachi, dove spesso si fermava durante i suoi viaggi per riposarsi, che sul carretto per la strada. Ricordo quando da ragazzino qualche volta andavo in campagna con lui. Strada facendo metteva la mano incallita sulla guancia creando una cassa armonica e cantava. Su quelle strade polverose mentre ascoltavo immedesimato ogni parola, si sentiva oltre che la sua voce melodiosa, il rumore delle ruote e il suono delle sonagliere.  Mia madre invece era contadina e anche lei conosceva tantissimi canti di mietitura, vendemmia e raccolta di olive che negli anni mi ha poi trasmesso.

Da dove vengono la tua maestria nel dipingere e nell’artigianato popolare?

Non è stato difficile accostarmi all’artigianato popolare perché fin da piccolo, avendo avuto davanti agli occhi i colori forti dei carretti, le scene che spesso rappresentavano le battaglie dei paladini contro i saraceni, mi è venuto naturale provare a cimentarmi con l’aiuto di qualche libro, imparando col tempo le tecniche della decorazione dello stile palermitano, senza frequentare nessuna bottega. Alcuni dei pittori di carretti che ho apprezzato tantissimo durante il mio percorso sono stati i Ducato di Bagheria, Francesco Paolo Cardinale di Palermo, Nunzio Pellegrino di Castelvetrano, poi naturalmente gli altri della Sicilia orientale come Domenico Di Mauro, Antonio Zappalà e Nerina Chiarenza di Aci S. Antonio. Da ragazzo ho fatto molte esperienze pittoriche cimentandomi e sperimentando diversi stili: cercavo un mio punto di riferimento. Ho dipinto anche molti quadri in stile surrealista e metafisico firmandomi col nome Morgan. Mio padre era molto contrariato dalla scelta di questo pseudonimo e c’erano continui battibecchi tra noi, ma era normale per quell’epoca: lui era legato alla tradizione mentre io mi trovavo nella mia fase di crescita e di ricerca. Nel 1976 ho aperto un’attività artistico-artigianale a Partanna (TP); rifacendomi agli artisti che un tempo dipingevano a Place du Tertre a Parigi, l’ho chiamata “La piccola Montmartre”. In questo periodo organizzavo mostre di pittura e scultura e contemporaneamente mi dedicavo al restauro e alle cornici, attività che ho tenuta aperta fino a pochi anni fa, insieme a un’altra sede a Castelvetrano (TP). Quell’attività mi ha impegnato parecchio, allontanandomi dalla mia passione giovanile per la pittura e per il teatro... Alla chiusura delle botteghe ho dato il massimo sfogo a tutto ciò che avevo dentro, iniziando a fare il cantastorie a tempo pieno. Infatti ho ripreso a comporre storie, a mettere in versi leggende siciliane, vite di santi, racconti per bambini, dipingendo diversi cartelloni e creando anche un teatrino di burattini con vari personaggi. Ho realizzato finora un centinaio di cartelloni e scenari.


Nel preparare i cartelloni per i tuoi spettacoli segui ancora la tecnica tradizionele dei vecchi cantastorie?


Agli inizi preparavo io stesso i colori usando, come nella tradizione, le terre diluite con la colla. I colori che uso attualmente dopo aver trattato la tela sono quelli acrilici. La mia arte tipica siciliana è andata oltre, spaziando senza più fermarsi: infatti ho avuto modo con gli anni di poterla esprimere su un autocarro Fiat Pasini dipingendovi scene dei paladini di Francia e su un autocarro Fiat Fiorino che utilizzo attualmente per spostarmi da un punto all’altro con i miei spettacoli. Inoltre con questi colori solari dipingo spesso oggetti vari di qualsiasi materiale: legno, terracotta, ferro…

Qual è stata l’evoluzione in quasi 40 anni di attività delle tematiche nelle tue storie? Facciamo una panoramica sui temi che ti sono stati, nel corso del tempo, più cari

Come dicevo sono partito dalla tragedia del terremoto del 1968 con quelle due storie che, nel tempo, ho ampliato ridipingendone i cartelloni (quelli originali erano andati perduti). Poi, colpito da un fatto successo veramente a Gibellina (TP) durante il terremoto, ho scritto un’altra storia in versi su una bambina, chiamata dai genitori affettuosamente “Cudduredda” [Ciambellina], estratta viva dalle macerie e morta poche ore dopo all’ospedale Villa Sofia di Palermo.


Mi vogghiu prisintari, ancora ‘na vota,

cu stu cartilluni pittatu, a lu latu,

pigghiannu di la chitarra, la prima nota,

e doppu lestu ‘ncumenciu, avennu ciatu.

Gnaziu De Blasi sugnu, cari amici,
propriu, lu cantastorii di lu Bilìci.

Cantu e cuntu, la cronaca chi sintiti,

chidda attuali, si tutti m’attintati,

li fatti chi adduluranu, si capiti,

chi succedinu a catasta, si nutati.

Stu jornu vi parlu tantu, di Cudduredda,

chi ristà ‘nta la mimoria, figghia bedda.


(da La storia di Cudduredda)


Più avanti la mia passione per le tradizioni popolari mi ha spinto a documentarmi, andando nelle biblioteche dei paesi vicini, attingendo attraverso ricerche sui testi trascritti da Giuseppe Pitrè, Salomone Marino, Aurelio Rigoli e tanti altri, a storie e leggende di Sicilia. Negli anni le mie ricerche sono andate oltre la Sicilia, infatti spesso mi hanno invitato in Calabria, Puglia, Umbria, Toscana e anche in Francia. Non ho composto solamente storie e leggende, ma ho trattato anche fatti di cronaca, sociali e politici.  Attualmente sto scrivendo la storia di Rita Atria, la ragazza originaria di Partanna (TP) che collaborò con il giudice Borsellino e che si suicidò a Roma, dopo aver appreso la notizia dell’attentato al giudice.


Ora chi siti tutti ccà, ad’attintari,

prisentu sta storia, di veru duluri,

di Rita Atria, vi vogghiu je parlari,

di la so vita e tanti mali svinturi.

Contru di l’omertà, si stetti criatura,

nsinu chi morsi e nun nn’appi nudda cura.


(da La storia di Rita Atria)


Dove ti esibisci solitamente?


Nella piazza, anche se oggi la piazza non è più quella di una volta: un tempo il cantastorie era considerato il cronista che portava le notizie locali da un paese all’altro. Al giorno d’oggi questa figura è stata oscurata dai mass-media, anche perché le notizie si diffondono in tempo reale. Nonostante tutto cerco di mantenere viva questa tradizione partecipando a sagre e manifestazioni di musica popolare. Inoltre vado nelle scuole di tutto il territorio, per fare conoscere, apprezzare e amare alle nuove generazioni il mestiere del cantastorie. Essendo un cultore delle tradizioni popolari siciliane, ho una considerevole collezione di fogli volanti, libri, dischi, video e strumenti musicali.

Molte delle tue storie sono a tema religioso. Come ti accosti a queste tematiche? segui la tradizione o cerchi una nuova chiave interpretativa?

Ho composto diverse storie a tema religioso dipingendo vari cartelloni come: “Viaggiu dulurusu”, “Passioni e morti di lu Signuri”, “La Madonna di la Tagghiata”, “Rita la santa degli impossibili”, “La santuzza – storia di Santa Rusulia”. La storia è stata da me scritta dieci anni fa sulla scorta di una documentazione scrupolosa sulla vita della Santuzza: dov’è nata , quando, chi erano i suoi genitori, i miracoli… A volte rimango attratto da un miracolo, ma può appassionarmi anche una storia minima che riguarda, per esempio, una chiesa di campagna, che mi regala l’ispirazione e perciò piano piano inizio ascrivere. Di solito compongo ottave in rima alternata, ma anche sestine, da recitare come cuntastorie o da cantare. Santa Rosalia, in particolare, l’ho voluta dipingere persino in un trittico “a bancarella” tutto in legno che uso per le sagre o mostre vendendo i miei manufatti artistici, insieme ad altre figure come San Giorgio e San Michele Arcangelo. Quest’idea mi è venuta prendendo spunto dalle tipiche bancarelle di “calia e simenza” [ceci abbrustoliti e semi di zucca salati] che a Palermo sono sempre decorate con immagini sacre tipiche della pittura popolare siciliana.


Dove si svolgono gli spettacoli di burattini e com’è composto il tuo pubblico in quelle occasioni?


Dipende: in piazze, teatri, scuole, sagre, fiere… e a seconda delle occasioni il pubblico varia dagli adulti ai bambini. Da dietro le quinte noto l’interesse che mostrano specialmente i bambini quando vedono i personaggi avvicendarsi sulla scena e i miei cambiamenti di voce per dare vita ad ognuno di loro. Ho costruito con le mie mani il “Teatrinu Bilìciotu”: ho creato tre personaggi: Mastru ‘Gnaziu lu cuntastorii, l’impresario teatrale, che oggi è un burattino di 35 cm, ma domani certamente sarà un pupo siciliano; poi sono nati i due personaggi aiutanti come Spingulidda, furbo e scaltro e Canazza, un minchiunazzu. Ho dato anche vita ad altri burattini per poter mettere in scena Giufà e altre storielle della tradizione siciliana.


Ci anticipi qualcosa sui tuoi progetti futuri?


Non avendo figli vorrei lasciare in eredità l’amore e la passione per la pittura e per l’arte del cantastorie e cuntastorie: mi piacerebbe fondare una scuola di cantastorie in cui insegnare sia il canto e la recitazione che la pittura. Vorrei finire di riscrivere tutta la storia dei paladini di Francia in dialetto siciliano e costituire un’Orchestrina Bilìciota, con altri due o tre musicisti per ampliare il repertorio di musica e canto popolare.