Le radici indoeuropee nel mito del Graal.

Studio di Ivan Cuocolo.

 

La prima opera letteraria che fa menzione apertis verbis del Graal è il Roman de Perceval ou le conte du Graal di Chrétien de Troyes, scritta presumibilmente tra il 1175 e il 1190 circa, e rimasta incompiuta molto probabilmente per la morte del poeta. L’incontro con la Coppa di Perceval, protagonista del romanzo, nel castello del sofferente Re Pescatore, ha tutti gli elementi del “meraviglioso”. Durante la cena, Perceval assiste a una strana processione: « un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell’asta. […] Una goccia di sangue colava dalla punta del ferro della lancia. […] Una fanciulla molto bella […] aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata nella sala col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero il chiarore, come stelle quando si leva il sole o la luna […] Il graal che veniva avanti era fatto dell’oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o sulla terra »i. Il giovane Perceval, temendo di fare domande indiscrete, non chiede al Re Pescatore il significato di quella strana processione, non sapendo che tale domanda avrebbe salvato il re dal suo male. Il Graal viene citato di nuovo in una delle scene finali, quella in cui un eremita rivela a Perceval che l’oggetto meraviglioso porta al padre del Re Pescatore un'ostia santissima del quale si nutre.

Il nome comune "graal", nel francese antico di Chrétien (XII sec.), indica normalmente un "piatto" o una "scodella", la cui etimologia è incerta: generalmente si ipotizza derivi dal tardo latino "gradalis", attestato già nel IX sec. d.C. col significato di "piatto" o "ciotola"ii, che a sua volta potrebbe derivare dal greco κρατήρ ("vaso")iii.

Dettaglio importantissimo è che nella sua prima apparizione "letteraria" il Graal non è mai identificato con il Calice dell'Ultima Cena di Gesù, né lo si definisce “sacro” o “santo”, ma semplicemente “ungraal,un oggetto meraviglioso, dalle virtù straordinarie, ma mai quella Coppa.

Sarà proprio il fatto di essere “incompiuto” a rendere il romanzo di Chrétien, con il suo misterioso graal, l’athanor in cui si svilupperanno le più straordinarie possibilità immaginative, ed è quello che avverrà nelle numerose “continuazioni”, che fecero di quel graal “il” santo Graal: la Coppa dell’Ultima Cena che raccolse il sangue della Passione di Gesù Cristo.

 

A Robert de Boron si deve la fusione del tema cavalleresco del graal con la sacralità cristiana, sulla scorta della tradizione evangelica apocrifa. Nel suo Giuseppe d’Arimateaiv, scritto presumibilmente fra la fine del XII e l’inizio del XIII sec., si narra che nella casa di Simone c’era un vaso di pregevole fattura nel quale Gesù celebrava il proprio sacramento. Quando Cristo fu trascinato via per essere portato innanzi a Pilato, un giudeo trovò la coppa, la prese e la tenne con sé. Questa fu poi donata a Pilato e da questi a Giuseppe d’Arimatea, che, mentre lavava il corpo di Gesù, vide stillare il sangue dalle piaghe e lo raccolse nella coppa.

Da questo momento in poi il Graal diviene il Calice dell’Ultima Cena e il Vaso che ha raccolto il sangue di Cristo.

 

La figura di Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron si ispira in particolare ai vangeli apocrifi di Pietro e di Nicodemo: quest’ultimo soprattutto ne fa uno dei principali testimoni della Resurrezione. Il personaggio di Giuseppe d’Arimatea, venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa luterana e dalla Chiesa ortodossa, compare anche nei Vangeli canonici, ora come membro autorevole e giusto del Sinedrio (Marco, 15,42-46; Luca, 23,50-53), ora come un ricco uomo di Arimatea e discepolo di Gesù(Matteo, 27,57-60), ma che teneva questo fatto nascosto per timore dei Giudei (Giovanni, 19,38-42); compare inoltre in numerosi exempla di predicatori e successivamente nel repertorio degli enciclopedisti. Tuttavia, rimane oscuro il passaggio che lo vide trasformarsi nel custode della Coppa.

 

Con l’eccezione del Parzival di Wolfram von Eschenbach (1170 ca. – 1220 ca.), dove il Graal è una gemma miracolosa, simbolo della grazia divina che nutre tutti i presenti, tutti i romanzi del ciclo descrivono il Calice come un piatto largo e capiente o come una coppa.

Proprio nel poema di Wolfram von Eschenbach c’è un passo in cui si afferma che « Kyot, il maestro ben conosciuto, trovò a Toledo, abbandonata in un angolo, scritta in lingua pagana, la fonte di questa avventura, [Kyôt der meister wol bekant/ ze Dôlet verworfen ligen vant /in heidenischer schrifte / dirre âventiure gestifte] »v, espediente “letterario” del “famoso” manoscritto ritrovato. Tuttavia è diffusa l’interpretazione che nella sua opera siano presenti motivi “orientali” e catarivi, eresia che presenta diversi punti di contatto con il manicheismo di origine iranico-persiana.

 

Al di là degli artifici retorici e artistici la cosa sorprendente è che il “mito”, l’archetipo del Graal sembra essere effettivamente presente, proprio come dice Wolfram, anche in ambito islamico-persiano: in uno studio di H. Corbin su una “Liturgia sciita del Graalvii presente in “L’Iran e la filosofia”, si parla di un “rituale della coppa” dalla preparazione di una raccolta di sette trattati in persiano sulla fotowwat (in persiano javânmardĭ), parola la cui traduzione potrebbe essere sia “gioventù” sia “cavalleria spirituale”, una sorta di stadio intermedio fra il sufi (mistico) e il semplice fedeleviii. La fotowwat comporterebbe un rito di iniziazione consistente in un “rituale della coppa” istituito dal profeta Maometto in persona. In seguito all’episodio in cui egli dichiara al genero ‘Alì: « Tu sei il cavaliere [fata’] di questa comunità », il profeta si fa portare una coppa d’acqua e del sale. Mescola successivamente tre pizzichi di sale all’acqua della coppa. Gettando il primo pizzico di sale nell’acqua, dice: « Questo è la shari’at [la Legge] ». Gettando il secondo, dice: « Questo è la tariqat [la Via verso la gnosi] ». Gettando il terzo dice: « Questo è la haqiqat [la Sapienza] »ix.

 

Corbin ci informa ancora a proposito di un’altra tradizione in ambiente persiano, relativa alla giovinezza del profeta, e precedente la sua missione religiosa, in cui esisteva una cavalleria (fotowwat-dari) il cui rito consisteva nella partecipazione non già alla coppa d’acqua salata, ma alla coppa di vino. Abu Jahl, zio di Maometto, era attorniato da quattrocento compagni che praticavano tale rito e quaranta compagni del profeta (le cifre 40 e 400 sono evidentemente simboliche) chiesero a quest’ultimo di istituire anche per loro una fotowwat che fosse occasione per praticare il “rituale della coppa”. Escluso l’uso del vino, fu utilizzata la coppa d’acqua salatax.

 

Il rituale della coppa ci riporta anche a quello officiato da Abu’l-Khattab (m. 762 ca.), sicuramente il primo a concepire e a organizzare un movimento di tipo esoterico e gnostico islamico (batin), che ha le sue origini nella gnosi sciita (sempre in ambito persiano) e in particolare nella sua corrente del nosayrismo, una “società segreta” iniziatica e mistica a carattere sincretisticoxi, nel cui calendario liturgico trovano posto sia feste sciite, sia due feste iraniche mazdee (Now-Ruz, Nuova Luce o Capodanno, celebrata il 21 marzo, e il Mehrgan, celebrata il 2 ottobre in base a questo calendarioxii), e due feste cristiane (Natale, che deriva a sua volta dal natale mitraico e il Giovedì Santo). Per i nosayriti particolarmente la storia si concentra in cicli cosmici o “cupole”, ognuna manifestatasi mediante un gruppo di cinque persone teofaniche. Nella loro escatologia il passaggio dalla “cupola persiana” (o bahmaniana, come viene chiamata la religione dei magi) alla “cupola mohammadica” (l’Islam) avviene attraverso l’apparizione di ‘Ali, cugino e genero di Maometto. Questo passaggio è espresso attraverso l’esegesi del versetto coranico LIV, 6: « Il giorno in cui l’Araldo li chiamerà a qualcosa di orribile »xiii, che ci riconduce a quella liturgia sciita del Graal che ci interessa. Tale giorno è quello della manifestazione di Salman il Persiano (custode della dottrina segreta di Maometto): « Nella mano destra egli reca un Graal [ka’s, coppa, calice], nel quale è il servo della luce [...]. Egli chiama le genti al signore Mohammed, le guida, ed esse compiono la propria conversione [l’ardua cosa]. [...] Qualcuno è apparso che ci chiamò alla religione dei Magi [...], quindi è apparso il signore Mohammed [...], e le genti erano perplesse dinanzi alla differenza delle due lingue e delle due epifanie: la bahmaniana [la mazdea] e la mohammadica. Quando fu manifestato l’Emiro delle Api [‘Alì] che impugnava Dhu’l-Fiqar [la spada di ‘Alì], le genti fissarono su di lui la loro contemplazione. Il signore Mohammed disse loro: Ecco colui che è il vostro signore-compagno, ‘Alì il Grande »xiv. Di fondamentale importanza è il “rituale della coppa”, fatta circolare fra i confratelli da Abu’l-Khattab, che dichiara loro: « Voi foste fra i bahmaniani [mazdei] (kontom fî’l-bahmanîa) »xv, a sottolineare, evidentemente, la continuità con la tradizione persiana. La Coppa circola di mano in mano, dopo che ciascuno dei compagni ne ha bevuto il contenuto della coppa non è diminuito, così come avviene nel rituale del Santo Graal, quale ci viene descritto nel ciclo cavalleresco in Occidente. A ciascuno dei cavalieri del Graal questo dà un nutrimento corrispondente al suo essere e al suo desiderio, senza che mai il suo contenuto diminuisca o si esaurisca.

Ma torniamo alla nostra liturgia sciita: ecco che Abu’l-Khattab, levando le braccia in un gesto da sommo sacerdote, innalza la Coppa, le fa tracciare un cerchio, e la Coppa lentamente si solleva “fiammeggiante” e in questa luce, dall’alto della cupola rossa (dettaglio tutt’altro che secondarioxvi), appare l’imam Jafar, che rivela allora il mistero del “vino di Malakut” (il vino del mondo dell’Angelo, che ricorda molto sia il Vino dell’Ultima Cena, sia il Soma sanscrito, bevanda sacra vedica, apportatrice di immortalitàxvii), riservato esclusivamente ai suoi eletti. A questo punto il Graal ridiscende vuoto, poichè tutti gli Invisibili vi hanno attinto. Allora Abu’l-Khattab dice: « Con questa bevanda hai assaporato la conoscenza del Malakut, la conoscenza di quel che fu nei primi secoli, nel corso delle epoche e dei cicli del mondo. Tu puoi parlare ora ogni lingua, [...] e [quella] di tutto quanto respira sulla terra. [...] Abu’l-Khattab fece bere di quella bevanda a ciascuno di noi, quindi ci disse: “Oggi voi siete nella casa del sovrappiù.” »xviii. Coloro, è detto, che prendono parte al rituale attorno a Abu’l-Khattab « furono già là », attraverso la metempsicosi; tuttavia molti di loro (gli Invisibili) non hanno avuto l’“obbligo” di tornare all’esistenza terrena, ma partecipano ugualmente alla liturgia del Graal. Ed è proprio tale “legge del karma” che la setta di Abu’l-Khattab cerca di spezzare. La causa principale di questo ciclo delle rinascite sta nell’insufficenza dell’amore fraterno, dalla mancanza del compimento del gesto “esoterico” dell’”elemosina legale”xix. Così il rituale del Vino e della Coppa si chiude con il richiamo a quello che è il primo e ultimo precetto della fotowwat: « questo è ciò che il nostro signore Abu’l-Khattab ha compiuto espressamente per noi, nella cerimonia della Coppa, con la grazia che essa comporta »xx.

 

In base a queste prove sembra legittimo poter affermare che le due tradizioni, quella “europea” e quella sciita “persiana” (entrambe di comune origine indoeuropea), troppo simili per essere indipendenti, abbiano una medesima “fonte” indoeuropea, derivando dall'archetipo comune della Coppa, oggetto simbolo di regalità, dispensatore di beni e immortalità, sopravvissuto e sviluppatosi poi parallelamente e indipendentemente nelle diverse culture derivate dalla medesima radice “indoeuropea”. Il rituale della Coppa richiama alla mente, infatti, anche l’uso del Krater (Graal/Coppa) nei misteri mitraici ed è di importanza centrale anche nei riti vedici e nelle liturgie brahmanico-induiste, come non pensare inoltre anche alla somiglianza simbolica fra Vino/Sangue cristiano, Malakut sciita e Soma vedico, tutti dispensatori attraverso la Coppa di Vita eterna? Senza dimenticare che nel rituale sciita esaminato è esplicito il richiamo alla religione mazdea-persiana nel già citato: « Voi foste fra i bahmaniani [mazdei] (kontom fî’l-bahmanîa) »xxi.

 

Ma non è tutto: la stessa “Coppa” come strumento del rituale sacro e come simbolo di potere, è presente praticamente ovunque presso tutti i popoli indoeuropei, lo ritroviamo infatti presso i greci e le popolazioni sia celtiche, sia germaniche, dove assunse indubbiamente un significato di trasmissione della sovranità. Si conserva, per esempio, nel tesoro del duomo di Monza il calice che la regina Teodelinda avrebbe offerto ad Agilulfo, da lei prescelto nel 590 d.C. alla successione del defunto marito Autari, come simbolo del passaggio del potere regale. Allo stesso modo, nel sistema mitico-simbolico celtico, la coppa, emblema di regalità, e il bacile, calderone dell'abbondanza e della conoscenza (appartenenti al dio Dagda) si sovrappongono; le leggende testimoniano come la coppa colma di idromele o di vino offerta da una ragazza - ricordiamo che nel Perceval di Chrétien è una fanciulla a portare il Graal - a un candidato al trono, sia il segno della sua elezione e la coppa più bella e preziosa sia l’offerta atta a celebrare l’eroe. Si può perciò ipotizzare, a questo punto, che la Coppa come simbolo al contempo di sacralità, regalità e di immortalità sia un archetipo delle culture indoeuropee. Il Graal letterario sarebbe dunque il “fossile”, l’espressione di un oggetto meraviglioso, di un culto presente già da tempi ben più antichi in ambito indoeuropeo e mai del tutto tramontato.

 

L’immagine, il tema del Graal sarebbe dunque riemerso come un fiume carsico da un antico culto indoeuropeo mai sopito, fatto che si collocherebbe, tra l’altro, perfettamente « nell’ambito di quel riemergere del substrato indoeuropeo di cui la cristianità dei secoli XI-XIII pare essere stata teatro »xxii, così fortemente sottolineato da studiosi del calibro di Le Goff, Duby e altri.

 

Il Graal riemerge chiaro, trovando una sua potentissima collocazione in ambito letterario, proprio nel "significativo" XII sec., dal suo substrato indoeuropeo, pur senza essersi mai del tutto “sopito”, ma restando, attraverso i secoli, un elemento fondamentale del rituale sacro della sovranità, dell’immortalità e della purificazione, conservandosi come simbolo attraverso le diverse civiltà e culture di origine indoeuropea, e divenendo, nella successiva sua cristianizzazione dei continuatori di Chrétien, il Calice dell'Ultima Cena.

i Chrétienne de Troyes, Perceval, trad it. Di G. Agrati e M.L. Magini, Mondadori, Milano 1991, vv. 373a. 3180- 373b.3226

ii Cfr. R. Barber, The Holy Grail: Imagination and Belief, Allen Lane & Harvard University Press, London 2004, trad. it. F. Genta Bonelli, ed. Piemme S.p.a., Milano 2004, p. 122.

iii Ibidem.

iv Probabilmente parte di una trilogia che comprendeva oltre al citato Joseph d'Arimathie o Roman de l'estoire dou Graal, un Merlin e un Perceval, di cui abbiamo alcuni frammenti e una riduzione in prosa.

v Parzival, 453, 11-15. Ed. it. UTET, Torino 1981

vi Cfr. H. Adolf, New Light on Oriental Sources for Wolfram’s Parzival and Other Grail Romances, PMLA (June 1947), Vol. 62, No.2, 306-324.

vii H. Corbin, L’Iran e la filosofia, tr. it. di P. Venuta, Guida editori, Napoli 1992, pp. 147-172. Già in Mélanges d’histoire des religions offerts ò Henri-Charles Puech, P.U.F., Paris 1974.

viii H. Corbin, op. cit., p. 147. Cfr. anche F. Cuomo Gli ordini cavallerschi, Newton, Roma 1992, pp. 181 e ss.

ix AA.VV., Traités des compagnons-chevaliers (Rasâ’il-e javânmardân), recueil de sept «Fotowwat-Nâmeh », edito a cura di M. Sarrâf, intr. analitica di H. Corbin, Teheran-Paris 1973, (« Bibliothèque Iranienne », 20), il Fotowwat-Nâmeh di ‘Abdorrazzaq Kashani, pp. 16-20 della parte francese. Sulla figura di ‘Alì come cavaliere dell’Islam cfr. anche F. Cuomo, op.cit., pp. 182 e 184

x Cfr. Corbin, op. cit., pp. 148-149.

xi Cfr. Corbin Storia della filosofia islamica, ed. italiana Adelphi 1991, trad. di Calasso e Donatoni, p. 137.

xii Cfr. M. Boyce, Iranian festivals, in Yarshater, Ehsan, The Cambridge History of Iran 3.2, New York: Cambridge UP 1983, p. 801–801.

xiii Traduzione interpretativa in italiano a cura di H. Piccardo, revisione e controllo dottrinale a cura dell’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia – UCOI.

xiv R. Strothmann, Esoterische Sonderheiten bei den Nusairî, Geschichten und Traditionen von den heilingen Meistern aus dem Prophetenhaus, Berlin, Akademie-Verlag 1958, p.292 del testo arabo, ripreso da Corbin in L’Iran e la filosofia, pp. 160-161.

xv Corbin op. cit., p. 161.

xvi E’ nota peraltro l’importanza del colore rosso nel “nostro” ciclo del Graal: « [...] il cavaliere [Galaad] si mostrò in armi vermiglie, il colore del fuoco >> (La Quête du Graal, a cura di A. Beguin e Y. Bonnefoy, Paris 1965, pp. 57, 123.

xvii Cfr. M. Raveri, Induismo, in Manuale di storia delle religioni, (a cura di Giovanni Filoramo). ed. Laterza, Bari 2009, p. 295; cfr. M. Piantelli, La "religione" vedica, in Hinduismo (a cura di Giovanni Filoramo). Ed. Laterza, Bari 2007, pag. 37

xviii Il testo arabo di questo raccontato è stato pubblicato da R. Strothmann, in op. cit., pp. 207-216, dalla versione riportata da H. Corbin, L’Iran e la filosofia, ed. cit., pp. 168-169.

xix Cfr. H. Corbin Un roman initiatique ismaélien du Xe siècle, in << Cahiers de civilisation médiévale >> Università di Poitiers, XV (1972), sul significato “esoterico” dell’”elemosina sacra”.

xx H. Corbin, L’Iran e la filosofia, ed. cit., p. 172.

xxi H. Corbin, ivi. p. 161.

xxii J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, ed. Einaudi, Torino 1982, p. 12. Parimenti Le Goff, citando ipotesi simili di Duby e di altri, attribuisce la nascita dell’idea del Purgatorio a tale “riemersione del substrato indoeuropeo”: « La comparsa (o la ricomparsa?) dello schema trifunzionale, recentemente messa in luce da Georges Duby e da altri studiosi, è pressappoco contemporanea al fenomeno di cui ci occupiamo », ibidem.